La Scelta
Che cosa vogliono i No TAV?
Fermare la costruzione dell’opera non sembra esaurire il senso della loro scelta. La lotta, i processi, il carcere, la guerra, le scelte individuali sono occasioni di cui dispongono nel tentativo di dare dignità alla loro vita.
SINOSSI LUNGA
«Forza, coraggio e gioia!» Questo è l’invito che Luca rivolge ai suoi compagni riuniti in
assemblea. È rimasto gravemente ferito mentre tentava di rallentare l’apertura del cantiere al quale il movimento No TAV si oppone. Emanuela, la sua compagna, legge la lettera che Luca ha scritto dall’ospedale in cui si sta lentamente riprendendo. Alcuni attivisti no TAV, tra i quali Marisa, Nicoletta e Paolo, tentano di disturbare i lavori del cantiere e di abbatterne le reti. Di notte, in piccoli gruppi, riescono ad entrare e danneggiare alcuni mezzi, ma il cantiere è molto grande ed è considerato dallo Stato un’opera strategica. I lavori procedono, il cantiere cresce.
Il movimento prova a sostenere un partito politico che si dichiara no TAV, Nicoletta richiama la necessità di mantenere autonomia nella lotta. Arrivano i processi, i pubblici ministeri raccontano il movimento dal punto di vista dello Stato e chiedono pene importanti per gli imputati.
Passano alcuni anni, Luca ed Emanuela hanno un figlio. Davide, un militante no TAV, è tornato dalla Siria dove ha combattuto nella rivoluzione del Rojava. La guerra lo ha posto di fronte a dilemmi laceranti: sia combattere che non combattere sono due scelte sbagliate. Il tentativo di fermare la costruzione dell’opera per via istituzionale è ormai fallito: in assemblea Luca invita i compagni a prenderne atto, è in semilibertà e deve rientrare in carcere ogni sera.
Mentre racconta di essersi lasciato con Emanuela, riconosce che «sta all’individuo soltanto la ricerca della propria felicità».
La lotta sulle reti del cantiere prosegue. Nicoletta viene arrestata e suo marito Silvano scende in paese per partecipare alla manifestazione in sua solidarietà.
CHI HA FATTO QUESTO FILM
Per riuscire a descrivere, a presentare l’attività del collettivo informale che ha realizzato questo film i titoli di testa e di coda sono uno strumento scorretto e insufficiente oltre che necessario.Scorretto perché la relazione tra me, Carlo Bachschmidt e Michele Ruvioli (le tre persone che hanno prodotto, condotto la ricerca, scritto, diretto, amministrato, filmato e che adesso distribuiscono il film) non si è fondata sulla gerarchia ed i rapporti economici che la realizzazione di un film prevederebbe ma su un comune obiettivo creativo, esistenziale e politico (il film come oggetto e il film come azione, esperienza, lotta politica) e si è retta sulla faticosa, costante tessitura della trama che ci ha tenuti insieme e che ha fatto crescere il nostro punto di vista comune (attraverso il conflitto, alcuni momenti maieutici e la terapia di gruppo, mai fatta, che invocava Michele dopo il primo anno) raggiungendo quale risultato lo deciderete voi. Il sunto dei titoli e dei ringraziamenti è insufficiente perché questo collettivo informale, quando abbiamo iniziato nel 2012, esisteva, in forma e composizione diverse, già da circa dieci anni cioè da dopo il G8 di Genova che è stata un’esperienza determinante per il percorso successivo di ognuno di noi: in quegli anni abbiamo imparato a rifiutare la logica dei buoni e dei cattivi attraverso la quale si esercita il potere, abbiamo imparato che non ha senso rappresentare le proprie idee senza agire, abbiamo imparato a non delegare ed abbiamo realizzato, appunto insieme ad altre/i, i primi lavori.
Se questo nostro film è stato possibile è stato grazie a quest’esperienza collettiva precedente che non ha un nome ma tanti, noi
l’abbiamo portata avanti. I titoli, ancora, sono insufficienti a descrivere il nostro rapporto con l’oggetto della ricerca cioè il movimento No TAV. Noi, infatti, siamo no TAV, fare questo film è stato il nostro modo migliore di esserne parte, è stata la nostra scelta, così come i film precedenti sono stati un modo di essere no global e così come è stato per Carlo, dico io, lavorare ai processi del G8, nei dieci anni successivi, come consulente degli avvocati del movimento.
Abbiamo deciso di dedicarci al movimento No TAV un anno dopo l’uscita di Black Block e la continuità per noi era chiara. Io e Michele siamo andati per la prima volta in Valle nel luglio del 2011, senza filmare, subito dopo la manifestazione per il decennale del G8, insieme ai nostri amici stranieri protagonisti di Black Block ed abbiamo trovato un movimento che aveva appena affrontato uno dei suoi momenti più intensi di lotta nel tentativo di impedire l’inizio dei lavori del primo cantiere (La libera repubblica della Maddalena e la manifestazione del 3 luglio), un movimento che veniva attraversato da una forte radicalità nelle pratiche e che, alle prese con l’attacco dello Stato e dei media volto a dividere i No TAV in buoni (cittadini valligiani) e cattivi
(black bloc venuti da fuori), aveva risposto con un sonoro “siamo tutti black bloc”.
Nel 2012, dopo la caduta di Luca Abbà dal traliccio durante lo sgombero della baita, quando ci trasferiamo in Valle e cominciamo le riprese del film, la lotta è viva: l’anno successivo il movimento rivendica pubblicamente in assemblea la pratica del sabotaggio del cantiere, ancora un anno dopo, nel 2014 un sabotaggio va a processo con l’accusa di terrorismo.
Il cinema, come arte, segue dei processi verticali nella sua realizzazione, è una macchina (artigianale o industriale non importa) che si è affinata sulla necessità di mettere un certo numero di persone, ognuna con le sue responsabilità tecniche e creative, a disposizione di un solo punto di vista, quello del film. Il regista è sacralizzato e lo sviluppo del suo punto di vista viene preservato affinché arrivi coerente fino allo spettatore perché il rapporto autore/spettatore deve essere diretto, uno contro uno. Gli altri apporti, per quanto creativi, sono tutti funzionali allo sviluppo del punto di vista nel quale vive il film, sono al servizio di questo, devono scomparire affinché la relazione con lo spettatore si accenda e ricompaiono allo scorrere dei titoli.
In questo senso è stato per noi tre naturale dividerci i ruoli (regia, fotografia, suono e montaggio) ma mantenere tutti e tre la responsabilità autoriale perché la nostra relazione non può che vivere in modo orizzontale. Il titolo di autori è stato quindi necessario per rappresentare questo nostro tentativo di dare vita ad un punto di vista, nel film, unico e comune tra noi. Infine l’adesione alla verticalità della realizzazione cinematografica è stata inevitabile perché, la continua tensione verso un punto di vista comune, ha bisogno di qualcuno che si prenda la responsabilità di declinare e di incarnare questo punto di vista, il regista.
Quando abbiamo cominciato a lavorare a La scelta non immaginavamo che, per arrivare alla maturazione, per finirlo sarebbero serviti più di otto anni di riprese e quasi undici anni di lavorazione complessiva. Neppure pensavamo di doverlo produrre noi. Mi ricordo che, già nei primi mesi, molti valsusini no TAV, che avevano intuito l’ambizione del progetto, ci chiedevano un po’ attoniti se avessimo intenzione di filmare fino alla fine, fino all’esito della lotta, ci guardavano e pensavano che non ci stessimo rendendo conto di quanto a lungo avremmo dovuto resistere per riuscirci.
Avevano ragione poiché probabilmente non basterà il tempo delle nostre vite per vedere la fine di questa storia. A noi, però, non interessava raccontare la vittoria o la sconfitta della lotta ma che cosa si muove nella scelta di affrontarla.
“Noi siamo impantanati in questo sistema qua, noi lo sfruttiamo, ne utilizziamo i benefici non rendendoci conto che il sistema ci ha reso servi, e noi nell’essere servi abbiamo bisogno di avere altri esseri viventi, altre persone sui quali porre il nostro dominio. E quindi io penso che il nemico sia dentro di noi. Perché se la gente fosse libere da queste logiche qua non permetterebbe né a qualcuno di determinare la propria vita, né queste persone lo farebbero su altri.” Intervista a Luana Martucci, estate 2012
Quando ho incontrato Luana la prima volta, di notte al campeggio di Chiomonte nel 2012 eravamo entrambi soli, ci siamo sorrisi ed abbiamo parlato subito. L’espressione seria ed il sorriso complice, molto poco incline allo scontro, non sempre lucida, consapevole. Io mi stavo calando a pieno dentro la mia scelta di essere in Valle per il film e stavo cercando una come lei
per la nostra ricerca. Luana ha capito subito, non ha cambiato atteggiamento ed ha ricambiato l’interesse. Il giorno seguente l’ho presentata a Carlo, Michele, Mina e Lorenzo. Dopo tre lunghe e bellissime interviste durante le quali ci siamo a turno, in più occasioni, specchiati con lei in una comunanza che non ci dimenticheremo, Luana è diventata la protagonista della primissima
versione del film e le sue parole, il suo punto di vista sono diventati centrali nella nostra ricerca per molti anni a venire.
Luana, anarchica, anti specista, psicoterapeuta così interpreta il suo ruolo di sbirro della mente: “Io sono psicologa, psicoterapeuta, e il mio mandato sociale è un mandato sociale di controllo delle menti.
Io sarei la persona che sancisce la normalità o la non normalità. Sancire questo significa dare delle regole sociali di quello che una persona può pensare, come una persona può agire. Nel momento in cui tu non stai in queste norme io posso dichiararti comunque malato di mente, posso rinchiuderti, posso utilizzare una chimica sul tuo cervello per modificare il tuo stato. Da me vengono persone che vogliono essere normalizzate secondo i canoni, oppure vengono persone che portano un notevole disagio nella vita sociale collettiva, un disagio che io dovrei normalizzare e quindi renderle nuovamente adatte a condividere in modo piacevole una vita che loro non riconoscono, e una vita che io non riconosco come una vita a misura di essere vivente. Nel mio lavoro cerco di rendere una persona nuovamente in grado di decidere autonomamente per sé stessa, di accettare o meno una certa realtà, di viverla in modo adattivo o con disagio. Per me il disagio non è una cosa da riadattare per una questione di benessere a tutti i costi. Quindi io ho preso il mio compito come ripotenziare le persone anche all’interno del disagio che vivono, riconoscendolo come una parte fondamentale dei loro bisogni.”
In un lungo camera car dentro la galleria dell’autostrada, con queste parole di Luana iniziava il primo premontato di questo film, dieci anni fa. Con Luana abbiamo potuto confrontarci su molti dei temi che ci interessavano: la scelta individuale, il nemico, la violenza, la polizia, la paura, la consapevolezza dell’essere parte di un sistema di sopraffazione, del come uscirne, della lotta
No TAV capace di non imporre le decisioni a nessuno ma di essere spazio per la costruzione di una realtà nuova.
Molti anni più tardi, quando il film era quasi finito e le parole e il sorriso di Luana erano ancora dentro il racconto, ci siamo resi conto che non c’era più bisogno del suo sguardo e delle sue parole. Il film l’aveva progressivamente assorbita, avevamo fatto nostro il suo pensiero nella prosecuzione della ricerca. La narrazione che si era sviluppata aveva preso finalmente una fisionomia e questa assomigliava così tanto a Luana che non c’era più bisogno di lei come personaggio nel film. In questo senso Luana è il personaggio nascosto ed è con noi autrice di questo film.
Stefano Barabino 25 febbraio 2023
NOTA DEGLI AUTORI
È possibile essere militanti, fare politica, senza riprodurre nella lotta quegli stessi meccanismi ai quali ci si oppone? In questi dieci anni di lavorazione del film abbiamo vissuto nel movimento No Tav in una forte consonanza ideale con esso. Che cosa permette a questo movimento di continuare ad esistere nonostante la repressione di Stato nelle sue molteplici forme? Il film fa
emergere una soggettività che dà senso a cosa significhi fare politica. Come racconta Davide Grasso, uno dei protagonisti, chi lotta sta cercando di affermare l’importanza di restare umani, affinché «due o tre persone possano fare qualcosa assieme soltanto sulla base della loro libera scelta, senza un obbligo o un guadagno individuale». Siamo stati abituati a delegare ad altri le scelte di fondo delle nostre vite. Raccontare la lotta No Tav per noi ha significato capovolgere questo assunto, partire dalle responsabilità che ciascun individuo assume verso se stesso.
BIOGRAFIE DEGLI AUTORI
Carlo A. Bachschmidt è un documentarista nato a Genova nel 1965. Ancora studente in Architettura inizia a collaborare con lo studio di Renzo Piano. Dopo la laurea si dedica ad un altro modo di progettare lo spazio, l’ideazione e allestimento di iniziative collaterali alle mostre di Palazzo Ducale a Genova. Dal 1994 al 2007 lavora nell’ambito della comunicazione, curando l’organizzazione e la promozione di oltre venti campagne sociali rivolte al mondo giovanile. In occasione del G8 del 2001 diviene responsabile della segreteria organizzativa del Genoa Social Forum, il coordinamento delle organizzazioni no profit che esprimono il proprio dissenso nei confronti del vertice. Nel 2002 viene nominato consulente tecnico di parte (CTP)
dagli avvocati impegnati nei processi per la ricostruzione attraverso l’analisi della documentazione video-fotografica delle violenze verificatesi nei giorni del G8. Ha presentato presso i tribunali di Genova, Torino e Milano 24 consulenze tecniche che sono state acquisite agli atti dei processi e svolge tuttora tale professione. Formatosi nel settore dell’audiovisivo, tra il 2003 ed il 2009 realizza video indipendenti e nel 2010 esordisce come regista con il cortometraggio Janua. Nel 2011 scrive e dirige i documentari Black Block (menzione speciale alla sezione Controcampo della 68a edizione della Mostra del Cinema di Venezia) e La Provvista (entrambi prodotti da Fandango), e lo spettacolo teatrale I giorni di Genova nell’ambito del Festival di Internazionale a Ferrara. Sempre per Internazionale, nel 2021 è tra gli autori del podcast sul G8 di Genova, Limoni. Attualmente sta lavorando allo
sviluppo di un documentario dal titolo Costa.
Stefano Barabino lavora nel cinema italiano e internazionale come primo assistente operatore ed è autore e direttore della fotografia nel film documentario. Nato a Genova nel ’79, si è appassionato al cinema grazie ai suoi genitori e, grazie a Silvio
Ferrari, suo professore di storia dell’arte al liceo classico, ha conosciuto il cinema di Pasolini, Wiseman, Petri, Pontecorvo, Montaldo, Agosti, De Seta. Ha studiato filosofia a Bologna e poi Scienze politiche (senza laurearsi), si è avvicinato all’attivismo nel nascente movimento no global. Il G8 di Genova, il movimento contro la guerra in Iraq, l’occupazione della Buridda (un
centro sociale) e l’apertura di una radio pirata (Radio Babylon) sono alcune delle sue esperienze di quegli anni, fino al 2003 quando ha cominciato a dedicarsi all’audiovisivo come forma autonoma di militanza politica. Frequenta nel 2004 un corso di videomaking con Gianfranco Pangrazio, regista genovese di documentari. Dal 2004 al 2007 lavora come operatore televisivo. Nel 2008 esce con Derive Approdi Tre della ventidue, da lui diretto, documentario sull’inizio della lotta armata in Italia.
Nel 2007 è secondo assistente operatore su un film di Michael Winterbottom con la fotografia di Marcel Zyskind. Da quel momento ha lavorato stabilmente nel cinema fino ad oggi.
Tra il 2012 e il 2015 ha vissuto e lavorato nel Regno unito. Come primo assistente operatore ha fatto i fuochi su film diretti da Viggo Mortensen (The dead don’t hurt), Christopher Morris (The day shall come), Francesco Amato (Cosimo e Nicole, 18
regali, Filumena Marturano), Fabio de Luigi (Tre di troppo), Hossein Amini (The two faces of January), Michael Winterbottom (Genova, Trishna, The trip), Luise Friedberg (Three woman), Daniele Vicari (L’alligatore), Nicolò Ammaniti (Il Miracolo).Come direttore della fotografia e come operatore ha lavorato, oltre che con Carlo Bachschmidt (Black Block), con Pietro Marcello (La bocca del lupo, Il silenzio di Pelesjan), Marco Ponti (La bella stagione), Ugo Gregoretti (Io, il tubo e la pizza), Demetrio Giacomelli (Lotta di classe – Il cinema dei ragazzi di Emilio Sidoti).
Michele Ruvioli nasce nel 1979 e inizia la sua attività di videomaker formandosi col regista genovese Gianfranco Pancrazio e successivamente da autodidatta; dal 2003 si impegna nelle consulenze video per i processi del G8 di Genova. Durante e dopo quest’esperienza autoproduce i primi documentari di carattere sociale e politico: “A meüia” sul 30 giugno del ’60
e O.P. (ordine pubblico) documentario di ricostruzione del 20 luglio 2001 basato sulle consulenze video da lui prodotte per i processi del G8 genovese. Negli anni successivi lavora a diversi progetti per il Comune di Genova e il Laboratorio di Sociologia Visuale della facoltà di Scienze della Formazione di Genova su temi culturali e sociali scrivendo e montando tra gli altri i documentari “Lavoro e sicurezza in Liguria” e ” Permiso de sonar”.
Durante la lavorazione del film “La scelta” progressivamente lascia l’attività di videomaker a tempo pieno per interessarsi e formarsi in ambito pedagogico; attualmente dopo 2 anni nella scuola dell’infanzia lavora come maestro in una scuola primaria.
Paese: Italia, 2022
Durata: 83 min
Scheda Tecnica
Soggetto: Carlo A. Bachschmidt | Stefano Barabino | Michele Ruvioli
Regia: Carlo A. Bachschmidt
Fotografia: Stefano Barabino
Montaggio: Luca Mandrile
Musica originale: Roberta Barabino | Alessandro Paolini
Montaggio del suono e supervisione musicale: Stefano Grosso
Suono in presa diretta: Carlo A. Bachschmidt | Michele Ruvioli
Color: Marco Coradin
Produttore creativo: Dario Zonta
Produzione: Carlo A. Bachschmidt | Stefano Barabino | Michele Ruvioli in collaborazione con ZaLab Film
Protagonisti: Luca Abbà | Nicoletta Dosio | Emanuela Favale | Silvano Giai | Davide Grasso | Dana Lauriola | Marisa Meyer | Alberto Perino | Paolo Perotto | Gabriella Tittone
Screen ratio: 16:9
Lingua: italiano (sottotitoli in inglese)
Formato: HD
Premi e proiezioni
Presentato in anteprima mondiale al 40° Torino Film Festival