La sindrome di Tripoli: una mail dall’Italia
Anche questa settimana il regista Khalifa Abo Khraisse, in arte Kelly, ci racconta storie di quotidianità a Tripoli. Una quotidianità troppo scomoda, che spesso non abbiamo il coraggio di ascoltare.
Tripoli, 4 settembre
Ore prima dell’accordo di cessate il fuoco, ho letto questa e-mail:
“Caro Khalifa, come stai? Siamo molto dispiaciuti delle notizie che arrivano in questi giorni dalla Libia. Speriamo che tu e la tua famiglia stiate bene.
A proposito della situazione a Tripoli? Preghiamo per il tuo Paese “.
Ho risposto:
“Mio caro amico L, ho sempre desiderato scriverti una lunga e-mail, ma ho continuato a ritardare la mia risposta, sperando di avere qualche buona notizia da condividere. Siamo al sicuro, limitiamo il più possibile i nostri movimenti.
Possiamo sentire le esplosioni dentro e fuori, abbiamo avuto alcune notti difficili, ma ora non è così male come prima. La grande guerra è ancora a sud di Tripoli, a pochi chilometri di distanza.
Mando il mio amore a tutta la mia famiglia a Livorno. Tienici nelle tue preghiere e accendi una candela per tutte le anime perdute in questa guerra.
Spero di rivederti, in una situazione migliore.
Cordiali saluti
Kelly”
Sono stato felice di ricevere questa e-mail. Sarebbe bello poter dire di aver iniziato la mia giornata leggendola, ma non posso dirlo con certezza, perché ultimamente è difficile determinare quando i giorni iniziano e quando finiscono.
Quando il tuo ritmo del sonno è disturbato, tutto è confuso, il senso del tempo distorto, le notti e i giorni si fondono in un unico lungo incubo, solo il suono delle esplosioni ti fa rendere conto che tutto è reale e che sei sveglio.
Le cose erano relativamente calme quella mattina, il mio amico Farouq stava cercando di rifornire la macchina, mi ha chiesto di accompagnarlo, così abbiamo iniziato il nostro viaggio alla ricerca del carburante.
Abbiamo continuato a guidare con un serbatoio quasi vuoto, da una stazione di rifornimento a un’altra, ma tutte erano chiuse o con lunghe file d’attesa.
Abbiamo fatto telefonate, scambiando informazioni con altri amici con la stessa missione, per evitare di rivedere le stesse posizioni.
Alla fine abbiamo deciso di unirci alla fila di una stazione di rifornimento nell’area di Gurji.
La fila di macchine in attesa era lunga, si estendeva lungo tutta la strada e girava intorno all’angolo, come un serpente seguiva le curve per alcuni isolati.
Abbiamo aspettato tanto e alcune macchine si sono fermate dietro di noi e presto ci siamo ritrovati a metà di una lunghissima fila.
La coda si muoveva lentamente, di pochi metri ogni volta, e dopo poche ore si è fermata. Eravamo vicino all’edificio in fiamme di The Hall of The People.
Le persone lasciavano le loro macchine e cominciavano a chiacchierare, altre si sedevano per la strada, altre ancora si fermavano a fumare e scambiare storie sotto le bombe.
Un’altra ora era passata senza muoverci, e tutti abbiamo iniziato a chiederci se stessimo aspettando invano.
Con Farouq abbiamo quindi deciso di guidare fino alla stazione per controllare se fosse ancora aperta. La strada era così bloccata che ci abbiamo messo dieci minuti per raggiungere la stazione che, senza spiegazioni, era chiusa: era inutile aspettare ancora.
Ho capito che il giorno non era completamente sprecato solo quando mi sono fermato al bar e ho incontrato un mio vecchio amico che stava per partire. Mi ha fatto piacere scoprire che stava ancora lavorando con UNCHR (una commissione di nazioni unite per rifugiati) perché avevo molte domande da fargli.
Ero preoccupato per i migranti detenuti rimasti intrappolati nel fuoco a sud di Tripoli, poiché molti dei centri di detenzione “ufficiali” si trovavano lì.
Quando sono iniziati gli scontri, l’Immigrazione anti-illegale, il Ministero degli interni e tutte le Organizzazioni internazionali sono uscite dalla rete per diversi giorni, lasciando soli i migranti. Le guardie sono fuggite, i detenuti sono stati rinchiusi senza cibo né acqua per giorni, circondati dal fuoco.
Le organizzazioni internazionali continuavano a dichiarare di star osservando da vicino la situazione dei migranti a Tripoli, ma qui nessuno sapeva niente.
Nessuno stava guardando da vicino la situazione, solo Dio li stava osservando.
Quando finalmente riuscirono a raggiungerli, durante alcuni periodi di calma relativa, trasferirono i migranti da diversi centri di detenzione al centro di detenzione di “Airport Road”. Era solo questione di tempo e la battaglia si sarebbe trasferita lì, ma a chi stava trasferendo i detenuti sembrava non importare.
Ci hanno messo poco a trasferirli tutti, anche se il centro di detenzione “Airport Road” era già pieno.
Dopo poco tempo la zona dell’ Airport Road si è ritrovata al centro della battaglia, e di nuovo i migranti sono rimasti intrappolati lì, senza cibo né acqua.
La prima domanda che ho fatto al mio amico di UNCHR era proprio se sapesse qualcosa del centro di detenzione di Airport Road.
Lui ha chiamato uno dei loro funzionari che gli ha detto che tutti i 1200 migranti nel campo di Airport Road erano stati rilasciati quel giorno. Il funzionario ha detto inoltre che alcuni erano stati portati al campo di Al Swani, ma tanti erano stati lasciati liberi, e ridendo ha aggiunto “Li arresteremo più tardi, comunque dove potrebbero andare?”.
Per qualche motivo ha pensato che fosse divertente.
La seconda domanda che gli ho fatto era su un altro centro di detenzione, situato nella zona di Abo Slim, zona a nord di Tripoli, controllata da un’altra famigerata milizia, dove ci aspettavamo che potesse iniziare una nuova battaglia.
Mi ha detto che il campo Abo Slim era stato chiuso tempo fa. Gli ho detto che sapevo con certezza che le milizie lì fino a poco tempo fa erano ancora attive e arrestavano i migranti, temo che ci siano ancora migranti lì “ufficiosamente”.
Strinse le spalle e disse che non lo sapeva e che non importava molto.
Più tardi quello stesso giorno, l’accordo di cessate il fuoco fu stabilito, ho ricevuto molti messaggi ed e-mail, e ho continuato a riceverle anche nei giorni successivi.
Le persone che conosco, le persone che non conoscevo, le persone con cui ho lavorato, gli amici, le persone che ho incontrato e gli altri ancora da incontrare, erano tutti italiani. Erano preoccupati e mi hanno mandato le loro preghiere e il loro sostegno.
Uno dei messaggi migliori era un’offerta per far cadere una bottiglia di vino rosso con un drone sul tetto dove mi piace sedermi, che è quello che io chiamo un “aiuto umanitario di prima classe”