La sindrome di Tripoli
Il regista Khalifa Abo Khraisse, in arte Kelly, da Tripoli ci racconta ciò che succede dall’altra parte del Mediterraneo, e che facciamo finta di non sapere.
Una rubrica settimanale di brevi racconti, dall’autore che scrive Cartoline da Tripoli, per l’Internazionale.
“Se guardi una pentola non bolle mai, dicono, e così è anche per chi si aspetta al buio che l’elettricità ritorni. Ultimamente le interruzioni di corrente diventano più lunghe, ho iniziato a capirlo bene alcuni mesi fa, quando il mio generatore si è rotto, nonostante tutti i miei tentativi di rianimarlo. Dopo che quel leale pezzo di metallo alla fine mi ha abbandonato, non ho avuto altra scelta che godermi le obbligatorie notti romantiche a lume di candela, come la maggior parte delle persone di Tripoli. Ho provato a non lamentarmi molto, so che ormai avrei dovuto imparare a non lamentarmi, perché so che può ancora peggiorare.
Alla fine di Agosto le zone a sud di Tripoli sono diventate zone di conflitto, i suoni di esplosioni e cannoni anti-aerea sono di nuovo il suono principale della città, mentre le milizie della settima brigata della città di Tarhouna attaccano le milizie di Tripoli a sud di Tripoli. A circa venti minuti di macchina dal campo di battaglia, il mio vicino venne a bussare alla mia porta, e quello che doveva dirmi non era previsto, per niente. La sua visita era per invitarmi al suo matrimonio, invito che rappresenta un buon esempio della bellezza dell’arte libica d’imboscarsi.
Non ci diamo mai abbastanza preavviso prima di ogni occasione, né in pace, né in guerra. Non importa se si tratta di una milizia che attacca un’altra o un parente che visita un altro. Gli ospiti ti tendono un’imboscata nel tuo giorno libero, apri la porta e la tua casa è invasa da cugini, come una squadra speciale che fa irruzione nel quartier generale di un cartello della droga. Devi dire addio ai piani del tuo weekend come se volassero via fuori dalla porta, nello stesso momento in cui i tuoi ospiti la hanno attraversata per entrare. Sfortunatamente, i matrimoni non sono un’eccezione, almeno per gli uomini, mentre le donne prestano particolare attenzione alla gestione dell’invito, preparando e decorando le carte e consegnandole personalmente, i ragazzi invece ti saltano addosso come un attacco di droni “buongiorno, come stai oggi? Ah, a proposito, mi sto sposando dopo domani, ci vediamo lì. “E poi si incazzano se non ti presenti.
Mentre il mio educato giovane vicino parlava, avevo un’altra conversazione nella mia testa: come poteva essere così distratto? Ci sono persone che muoiono, probabilmente nello stesso momento in cui mi sta invitando adesso, e come se l’idea di sposarsi non fosse già abbastanza spaventosa, doveva farlo ora. Riuscii a nascondere le mie emozioni – o pensavo di averlo fatto – mentre mi congratulavo con lui, nel modo più educato e normale possibile, ma a giudicare dallo sguardo sul suo viso, non ci stavo proprio riuscendo. Ho già deciso di non andare, le probabilità che andrò sono davvero basse, perché comunque, senza menzionare la guerra, un altro chiodo nella bara della mia vita sociale non mi disturba molto.
Ho trascorso le notti successive ad ascoltare una traccia sonora surreale, una che si può sentire solo a Tripoli: il suono dei generatori, i lontani echi di esplosioni e insieme la rumorosa musica del matrimonio, unita ai colpi di pistola con cui lo si celebra. Ci ho pensato a lungo e mi sono chiesto, dovrei biasimarlo per non posticipare il suo matrimonio? Dopotutto viviamo in questa situazione da anni, il tempo si blocca a un certo punto, e siamo intrappolati in una via senza uscita, senza intravedere un futuro radioso all’orizzonte. Abbiamo diversi modi per affrontarlo, cerchiamo tutti di permettere a un singolo raggio di felicità di perforare questa nuvola scura intorno a noi, e sappiamo che questa felicità non è altro che un momento rubato, impilati uno sopra l’altro, come una casa di carte costruite sul bordo della lama.
Dopo nove giorni di combattimenti, le milizie hanno finalmente accettato il cessate il fuoco, ma sappiamo che questa fragile pace non durerà a lungo. Siamo tornati al punto di partenza, quasi tutte le principali potenze nella regione occidentale erano presenti a Tripoli, principalmente milizie di Misurata e Zintan, accanto al nuovo arrivato da Tarhouna, e le squadre ospitanti, Tripoli Milizia. Per ora, tutti i giocatori si sono assicurati un posto e si sono qualificati per il prossimo turno, le alleanze si interromperanno man mano che ne emergeranno di nuove, accordi segreti, negoziazioni e riunioni, tutto quello che possiamo fare è aspettare il calcio d’inizio.
Settantotto persone sono morte e duecentodieci ferite. La rete elettrica è crollata, e dopo giorni sono riusciti a ripararla parzialmente, le nostre quote giornaliere di elettricità sono aumentate lentamente, ora è più lunga di quella che avevamo pochi giorni fa, ma più breve di quella che avevamo prima degli scontri. Lunghe code alle stazioni di servizio, mancanza di pane, interruzione completa dell’acqua, anche se abbiamo sentito che tornerà presto, stiamo ancora aspettando.
Tripoli, uno scheletro di città, ferita, divisa, devastate e sempre sull’orlo tra la battaglia appena finite e l’ altra in procinto di iniziare. Le ferite della città ci hanno modellato e le nostre ferite hanno dato forma alla nostra città. È più che la relazione con lo spazio in cui viviamo, è lo spazio che continua a vivere dentro di noi, anche quando cerchiamo di lasciarlo. Puoi far uscire un tripolitano da Tripoli, ma non puoi mai portare Tripoli fuori da un tripolitano, è la sindrome di Tripoli.“