Genova 2001
È accaduto, può accadere ancora. Non si volta pagina su Genova senza questa consapevolezza. [Enrico Zucca, sostituto procuratore generale di Genova]
A Genova nel luglio 2001 si tiene il summit del G8, la riunione dei capi di Stato e di governo degli otto paesi più industrializzati della Terra (Usa, Canada, Germania, Francia, Italia, Regno Unito, Giappone e Russia). Il premier italiano era Silvio Berlusconi, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush e quello russo Vladimir Putin.
In quegli anni, fra gli incontri del G8 e quelli del WTO, la World Trade Organization, i leader delle economie mondiali stavano costruendo e negoziando il modello economico della globalizzazione delle merci.
Negli stessi anni, si stava organizzando dal basso un vastissimo movimento internazionale composto da decine di migliaia di attivisti e associazioni di tipo diversissimo, d’ispirazione ambientalista, religiosa, sindacale. E’ primo movimento di massa che non chiede niente per sé, ma giustizia per il mondo intero, come scrisse Susan George. Per il suo pluralismo di composizione e di temi viene chiamato “movimento di movimenti”: realtà diverse che uniscono le loro forze contro un avversario che capiscono di avere in comune, il modello di sviluppo che mette al primo posto i profitti, la finanza e la predazione dell’ambiente, a cui contrapporre un’altra idea di globalizzazione.
E’ un movimento erede di lotte lunghe, e costruito di pratiche, che ha costruito rete e coscienza in incontri internazionali come i Forum Sociali Mondiali di Porto Alegre, il primo dei quali si conclude con questa dichiarazione:
«Forze sociali da tutto il mondo riunite per il Forum sociale mondiale a Porto Alegre e Ong, movimenti e organizzazioni, intellettuali e artisti, vogliamo creare una grande alleanza per una nuova società, che non sia basata sulla logica dominante dove il mercato e i soldi sono considerate le uniche misure di riferimento. Noi resistiamo alla élite globale e vogliamo lavorare per l’eguaglianza, per la giustizia sociale, per la democrazia e la sicurezza di ciascuno, senza distinzione.»
E’ un movimento pieno di proposte, ma anche un movimento di protesta: il primo momento in cui, in modo sostanzialmente inatteso, questo emerge, fu nel novembre 1999, con la contestazione al vertice del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) a Seattle. Da lì era stato un crescendo continuo, ed ogni vertice, in giro per il mondo, diventava obiettivo di contestazioni sempre più forti. Per citarne solo alcuni, il vertice dell’OCSE a Bologna nel giugno 2000, quello del Fondo Monetario Internazionale a Praga nel settembre 2000, il vertice dell’Unione Europea a Nizza nel dicembre 2000, il vertice del World Economic Forum di Davos nel gennaio 2001.
Il movimento dei movimenti è un gigantesco entusiasmo collettivo. Milioni di persone sono convinte che gli abitanti del mondo possano prenderne in mano il destino. Tra il 19 e il 21 luglio 2001, più di trecentomila persone da tutto il mondo arrivano a Genova, chiedendo “libertà di movimento, libertà senza confini” per gli esseri umani, la fine dello sfruttamento incontrollato delle risorse naturali e un impegno internazionale per la tutela dell’ambiente, una tassa globale con lo scopo di limitare l’elemento meramente speculativo della finanza internazionale e la fine del monopolio sui brevetti medici delle aziende farmaceutiche. Ci sono più di mille associazioni, partiti, movimenti e gruppi sociali, organizzati nel Genoa Social Forum, la più vasta e trasversale piattaforma di mobilitazione sociale di quegli anni.
Prima dell’inizio del vertice tra i capi di stato, a Genova venne allestita la “zona rossa”. Praticamente l’intero centro della città, attorno a Palazzo Ducale sede degli incontri del G8, blindato da otto chilometri di grate alte tre metri, con tredici varchi di accesso, tombini sigillati e nessun transito dei mezzi pubblici. Vengono schierati oltre ventimila fra poliziotti e carabinieri; ma anche l’esercito, i finanzieri, persino il Corpo Forestale.
L’atteggiamento è simile a quello del precedente vertice ospitato dall’Italia, in quel caso dal governo di centrosinistra, a Napoli il 17 marzo 2001. Queste misure di sicurezza vengono motivate da allarmi terrorismo, e dalla presenza di una frangia organizzata di manifestanti fuori dal Genoa Social Forum, intenzionati a compiere atti vandalici, i cosiddetti Black Block.
Effettivamente, piccoli gruppi organizzati si muovo per la città senza interagire con le manifestazioni, ma dandosi ad atti di guerriglia urbana. Non vengono fermati. Le forze dell’ordine caricano invece i cortei pacifici, in piazza Manin, in via Tolemaide, in molti altri luoghi della città. Durante gli scontri viene ucciso un giovane di 23 anni, Carlo Giuliani. Il carabiniere diciannovenne Mario Placanica, responsabile di aver sparato il colpo, non è stato nemmeno processato. Placanica è stato poi dimesso dall’Arma dei carabinieri nel 2005 perché “inadatto al servizio”.
Nella notte successiva all’omicidio, oltre 350 agenti della polizia fecero irruzione nella scuola Diaz, dove aveva l’ufficio Stampa il Genoa social forum e dove dormivano 93 persone. Con l’intento ufficiale di arrestare alcuni dei manifestanti violenti, le forze dell’ordine massacrarono tutte le persone addormentate nell’edificio, mandandone 82 all’ospedale con gravi lesioni al torace, alla testa e agli arti. Per le violenze della Diaz sono state imputate 29 persone tra dirigenti e funzionari di polizia, con accuse di falso ideologico, lesioni, lesioni aggravate in concorso, introduzione di bombe molotov nella scuola e violazione della legge sulle armi. Nel processo d’appello furono condannate 25 persone, tra cui i dirigenti mandanti delle violenze come il capo dell’anticrimine Francesco Gratteri, il comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini e il dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola.
Le persone distrutte dall’attacco notturno furono poi portate nella caserma di Bolzaneto, dove già erano stati trattenuti circa 500 altri manifestanti. Ciò che accadde tra le mura della caserma è stato descritto dalla Corte di Cassazione come “inumano e degradante”. Per la corte, gli agenti coinvolti nei fatti di quei giorni si sono rese responsabili della “distruzione di oggetti personali, insulti di ogni tipo, da quelli a sfondo sessuale, diretti in particolare alle donne, a quelli razzisti a quelli di contenuto politico e varie minacce, spruzzi di sostanze urticanti o irritanti nelle celle, percosse in tutte le parti del corpo, compresi i genitali inferte con le mani coperte da pesanti guanti di pelle nera e con i manganelli”. Tuttavia, nonostante le indagini, soltanto 15 persone furono condannate e il resto dei responsabili delle violenze e delle torture restò ignoto. Inoltre, nessuno dei dirigenti di polizia coinvolti nelle violenze di Genova subì arretramenti di carriera, mentre chi lasciò la polizia venne coinvolto in ruoli di responsabilità in aziende private o pubbliche.