Quando si tratta di racconti del reale, fra chi si riprende e chi è ripreso si stabilisce una relazione asimmetrica di potere. Anche prescindendo dalle manipolazioni malevole, chi riprende ha il potere di riscrivere la storia di vita di chi è ripreso.
Quando si parla di categorie fragili o ai margini della società, come si fa quindi ad uscire dagli stereotipi dei racconti di solidarietà, o dalla stigmatizzazione ignorante e mistificante? La nostra proposta è semplice e radicale: restituire il controllo a chi abitualmente viene solo mostrato, rivendicare racconto per chi abitualmente viene rimosso, confinato in una non-esistenza. Il mondo, raccontato da chi lo vive.
Lo scopo è creare narrazioni che comunichino ciò che i partecipanti al processo realmente vogliono comunicare, nel modo che a loro sembra adeguato; di produrre cambiamento sociale o trasformazione individuale tramite un processo di produzione video diretto e prodotto dal basso.
Uno dei progetti principali di auto-narrazione sviluppati da ZaLab è quello che ha portato alla nascita del documentario “Come un uomo sulla terra”, risultato di un percorso di video partecipativo tenutosi per anni nel centro di educazione Asinitas di italiano per stranieri di Roma.
Cosa succede quando i partecipanti ad un laboratorio di video partecipativo decidono di rievocare momenti dolorosi della propria vita – come è facile che accada ad un migrante, ad un richiedente asilo o ad un rifugiato, sia che si voglia raccontare le ragioni della partenza, che la fatica del viaggio, che la sordità dell’asilo? Pensare all’indietro è necessario per potersi sentire una persona al centro della propria storia. Sentirsi intero, avere una memoria in cui ci si riconosce, è un processo che ha bisogno di tempo. E quando gli esseri umani pensano all’indietro, pensano in termini di storie, e sono a maggior ragione in grado di farlo quando le storie diventano narrazioni di sé ad un destinatario.
In questo senso, l’uso collettivo del video per ricostruire, rivendicare e condividere la propria vicenda può avere, per richiedenti asilo e rifugiati, un significato ulteriore rispetto alla realizzazione di un prodotto audiovisivo libero, inaspettato e dignitoso: un significato che rintracciamo nel processo.
Dopo una vicenda traumatica, la narrazione di sé rischia di smarrirsi; alcune esperienze sono così drammatiche da non riuscire a diventare memoria. Per quanto questi siano racconti che –in definitiva- si fanno a sé stessi, essi, per potersi innescare, necessitano di un destinatario altro da noi, che apra la possibilità della narrazione. L’assenza di un destinatario in grado di accogliere il racconto rende difficile, se non impossibile, l’elaborazione dell’esperienza. La narrazione di sé non rappresenta necessariamente la possibilità di de-problematizzare compiutamente un vissuto traumatico, ma, più spesso, l’assunzione della sua irriducibile singolarità e l’accettazione di un suo carattere enigmatico, di un suo senso inesauribile – che però trova risonanza e ricchezza nell’essere grazie alla narrazione ricucita nel patchwork della propria esperienza e di potersi fare parola parlante in uno spazio pubblico